Il mito dei Lotofagi
Fin dall’antichità, il godimento e l’oblio vengono concepite come figure strettamente connesse. Così Omero narra nell’Odissea:
«Subito andando, si mescolarono ai mangiatori di loto,
e i mangiatori di loto non meditarono la morte ai compagni
nostri, anzi, diedero loro del loto a mangiare.
Ma chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto,
non voleva portar notizie indietro e tornare,
ma volevano là, tra i mangiatori di loto,
a pascer loto restare e scordare il ritorno ».
Ulisse ed i suoi compagni, nel corso del loro faticoso viaggio verso Itaca, s’imbattono nei Lotofagi, una popolazione che si nutre dei dolci germogli del loto – una pianta orientale –, i quali hanno la capacità di far dimenticare a coloro che ne mangino il progetto del ritorno in patria.
Come sostengono Horkheimer e Adorno, il mangiare dei fiori evoca un particolare tipo di soddisfazione, che investe doppiamente i sensi: «il ricordo della felicità più antica e remota, che balena al senso dell’odorato, si fonde con l’estrema vicinanza, quella dell’incorporare». È un ricordo dell’infanzia perduta, quando non c’era soluzione di continuità tra l’io ed il mondo e l’appagamento era del tutto immediato. L’intensità del godimento distrae da ogni pro-getto e crea una sospensione temporale, che assorbe la presenza nel piacere puntuale.
Mentre i suoi compagni godono dei frutti del loto e non intendono far ritorno in patria, Ulisse invece non può accettare di fermarsi: i Lotofagi non minacciano la sua vita ed anzi promettono un idilliaco soggiorno ma Ulisse vede bene l’inganno.
Tra i mangiatori di loto non c’è che la parvenza della felicità, una beatitudine fondata sul ritiro dalla sofferenza e dalla fatica, la quale «nel migliore dei casi sarebbe l’assenza della coscienza dell’infelicità». Una vita soddisfacente si misura, per il re di Itaca, su ben altri fronti: «la felicità implica verità; è essenzialmente risultato; si sviluppa dal dolore superato». Perdere la memoria, cadere nell’oblio, significa precipitare in uno stato simile alla morte (il Lete era il fiume infero le cui acque rapivano il vitale ricordo), significa smarrire ogni rapporto con se stessi e con il mondo: infatti, solo la catena della memoria consente di riconoscere come miei i diversi vissuti, e dunque rende possibile costituire quell’identità soggettiva che è l’Io; parimenti, solo la catena della memoria può cucire insieme le esperienze e dare loro coesione in quella identità oggettiva che chiamiamo “il mondo”.
Lotofagia postmoderna
Oggi nella nostra società, pare al contrario che non si sappia che cosa farsene della memoria. Domina la frenesia del mercato e del progresso tecnologico mentre il passato perde spessore, in quanto è concepito come ciò che dev’essere costantemente sor-passato, e appena viene superato diviene obsoleto.
Ciò che risale a ieri non esiste più e nulla può costituirsi come durevole. Questo significa non soltanto perdita della memoria storica, legata alle vicende trascorse dell’umanità, ma anche incapacità di costituire una propria “storia” individuale. Vivere alla giornata, non giurare perseveranza e fedeltà a nessuno e a nessuna causa, evitare i progetti a lunga scadenza per il futuro ed impedire al passato di influenzare il presente, «in breve, isolare il presente da entrambi i lati, separandolo dalla storia» : questi sono gli odierni principi guida di ogni condotta razionale.
La vita diventa allora una sequenza arbitraria di momenti presenti, un presente continuo senza passato né futuro, senza storia, infine privo di coesione e soprattutto di senso.
«Oppure si potrebbe dire che, se “il medium che era il messaggio” della modernità era la carta fotografica (pensiamo agli album di famiglia che si ingrossano implacabilmente documentando pagina dopo pagina ingiallita il lento aumentare di eventi che portano all’identità, eventi irreversibili e non cancellabili), in ultima analisi il medium della postmodernità è il videotape (cancellabile e riutilizzabile, pensato per non trattenere le cose per sempre, che fa spazio agli avvenimenti di oggi unicamente a condizione che quelli di ieri siano cancellati, trasudando il messaggio dell’universale “fino a maggior chiarezza” di ogni cosa valutata degna di essere registrata)».
Ciò che balza agli occhi è la carenza di concrete esperienze, che viene così a determinarsi per l’uomo di oggi. La mancanza di contatto con un mondo sfuggente, l’incapacità di relazionarsi all’altro in maniera durevole e significativa, infine la sempre minore possibilità di cogliere sé nella frenesia del quotidiano: tutto questo crea un enorme “vuoto”.
Molti di noi, giovani e meno giovani, tentano di sfuggire alla a-sostanzialità dell’esistenza ricercando l’esperienza del limite, quasi bastassero molti stimoli e intensi a colmare il vuoto e a ricomporre i pezzi perduti del puzzle.
«Il limite è il corpo. Non si cerca più l’infinito, ma il finito; non Dio ma un corpo i cui limiti, la morte e l’orgasmo, diventano il sacro immanente, mentre il trascendente assoluto è lasciato alla storia».
In un mondo in cui la trascendenza è stata cancellata e l’immanenza si è fatta totale, il corpo e non l’anima diventa la principale fonte dell’identità. Così la “cura del corpo” – nelle forme del salutismo e del fitness – assume ai nostri occhi una grande e talvolta eccessiva importanza. In generale poi, cercando di recuperare un contatto intenso con sé e con l’altro, si tenta di rompere la monotonia del quotidiano spingendo il corpo a vibrare di sensazioni quanto più possibile intense.
Né attraverso l’anima, né attraverso il corpo però, sembra possibile trovare un’identità stabile: innanzitutto perché, come l’anima, anche il corpo è molto spesso obliato nella sua essenza.
L’oblio del corpo
Diversamente dall’ “anima” di antica tradizione, il nostro Io di postmoderni non è una sostanza, una pienezza, ma un’esistenza liquida, capace di assumere le forme più diverse senza però essere in grado di assumerne una una volta per tutte, di trovare un’identità unica una volta per sempre. Così è spesso nel corpo che oggi cerchiamo la possibilità di consistere, di stare, di assurgere ad una certa solidità. Se l’anima sfugge alla presa, il corpo invece presenta uno spessore, una carne, dei contorni ben definiti che individualizzano l’Io: coincidere in piena unità con tale individuazione, diventa perciò la strada maestra per ricomporre i cocci e ritrovare la perduta identità.
Il guaio è che il corpo, riconosciuto unicamente come opportunità per superare l’horror vacui di una fragile presenza, perde irrimediabilmente la propria sporgenza sulle cose e sul mondo; non è più quello che Merleau-Ponty definiva «il movimento stesso d’espressione, ciò che proietta all’esterno i significati assegnando ad essi un luogo, ciò grazie a cui questi significati si mettono ad esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi» ; non ci è più veicolo di trascendenza, ma solo mezzo di passiva ricezione di stimoli. Costantemente concepito come semplice «recettore di sensazioni», il corpo «assorbe e assimila esperienze, e la sua attitudine/capacità è chiamata “benessere” (fitness); al contrario, lo stato di “mancanza di benessere” significa debolezza, indifferenza, svogliatezza, depressione, apatia verso gli stimoli; oppure indica una sensibilità limitata e un’attitudine “sotto la media” verso nuove sensazioni ed esperienze». Allora la ricerca della forma fisica perfetta – mai raggiunta – genera in alcune persone sempre nuova ansietà, mentre il bisogno costante di stimoli ogni volta diversi e più intensi accresce l’insoddisfazione. Il corpo, senza l’anelito a trascendersi verso il mondo e verso l’altro, si trasforma realmente nella «tomba (sema) dell’anima» di cui parlava Platone: non individua l’Io per aprirlo a ciò che lo eccede, ma ne diventa il mero “contenitore”, riducendolo ad una clausura senza scampo.
Qualsiasi tentativo di trovare stabilità e senso nell’in-tensità, nella ricerca cioè di esperienze in cui si realizzi la coincidenza quanto più possibile perfetta con l’io-corpo, trova lo scacco proprio in questo esasperato ripiegamento in se stessi e nell’incapacità quindi di cogliere nel limite una possibilità di trascendenza.
La sessualità, trasformata in una questione di “quante persone e quante volte”, si riduce sempre di più a qualcosa di meccanico e cade nell’insignificanza o, potremmo anche ammettere, nella perversione.
«Perverso è quel desiderio che non desidera l’altro ma se stesso, che non diventa veicolo di trascendenza, ma oggetto della propria immanenza, giocata in quel breve spazio che separa la tensione dalla soddisfazione che la estingue…È al desiderio perverso e alla sua incapacità di trascendenza ciò a cui pensa la scienza medica e la morale diffusa quando definiscono il desiderio come un “istinto” la cui origine e il cui fine sono strettamente fisiologici. In realtà il desiderio non implica necessariamente un’attività sessuale, perché, come dice Sartre: “il desiderio non è desiderio di fare”, ma è desiderio di un oggetto trascendente che consenta di uscire dalla propria clausura».
Quando l’altro viene desiderato solo in funzione dell’Io e del suo desiderio, l’atto sessuale non può costituirsi come occasione di rinascita e di rinnovamento; ciò che l’Io trova dopo il superamento del limite, dopo l’orgasmo – non a caso definito “piccola morte” – è di nuovo, inesorabilmente se stesso con la propria insuperata irrequietudine.
L’allenamento alla scomparsa – di merci, prodotti che periodicamente vanno sostituiti, di partners che “non funzionano”, di amicizie che si rompono, di posti di lavoro che non durano – e la ricerca di situazioni e sensazioni intense che circoscrivono il piacere al presente, creano una situazione d’instabilità e al tempo stesso di dimenticanza.
Ci dimentichiamo innanzitutto di noi, del corpo che noi siamo e che non è un semplice strumento che abbiamo in dotazione: esso è sporgenza verso le cose e verso il mondo ed è possibilità di cogliere nel rapporto con gli altri l’occasione di trascendere il proprio egoismo.
Che qualcosa non va spesso lo si sente. Quanto è dimenticato non per questo cessa di offrirsi, di chiamare a sé: lo fa tramite l’inquietudine, la depressione, la sofferenza, il sogno, il disagio nella sfera dell’intimità e del desiderio … Tutto questo è concepito comunemente come menomazione, come perdita, come sottrazione alla vita e alla sua produttività. Ma i tesori più grandi richiedono d’essere trovati andando oltre la superficie.
Talvolta è necessario prendere una pausa dal mondo frenetico della vita quotidiana non certo per “perdere contatto con la realtà”, ma piuttosto per “entrare in contatto con se stessi in modo diverso” ed acquistare così una nuova ed arricchita prospettiva sulle cose e su se stessi.
Ricordare chi siamo, per seguire la nave di Ulisse verso la propria Itaca, con la filosofia come baedeker per il nostro viaggio.
BIBLIOGRAFIA
- Omero, Odissea, IX.
- Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999
- M. Horkheimer e T. Adorno , Dialettica dell’Illuminismo
- Lars Fr. H. Svendsen, Kjedsomhetens filosofi, Oslo, Universitetsforlaget, tr.it. Filosofia della noia, Parma, Guanda Editore, 2004., p.101.
- M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione.
- U. Galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1983
- J.P.Sartre, L’essere e il nulla, Milano, il Saggiatore, 1968.