Il cammino dell’ospite nella consulenza individuale

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Articolo del 10/10/2007

Ran Lahav: la consulenza filosofica come attività orientata alla saggezza

Lahav insegna consulenza filosofica alla School of Education di Haifa, in Israele, ed esercita, dal 1992, l’attività stessa di consulente.
Nel corso della sua opera Comprendere la vita, ad un certo punto vien posta la domanda: «Che cos’è un successo nella consulenza filosofica?». Lahav nei suoi scritti appare particolarmente attento ad osservare gli effetti della consulenza sull’ospite consultante e a chiarire quale forma di “benessere” l’ospite stesso debba attendersi da un ciclo di sessioni.

«Quando la consulenza o terapia mira ad aiutare il consultante a superare uno specifico problema o a migliorare la sua sensazione soggettiva di benessere, è più o meno chiaro che cosa può essere considerato un successo, anche se ci sono sempre gravi difficoltà nel concettualizzare e misurare sensazioni soggettive di benessere. Tuttavia, quando si tratta di un obiettivo caratterizzato così vagamente come l’ “autocomprensione” o la “saggezza”, le difficoltà sembrano ancora maggiori».

Esistono dunque diversi fattori di cui tenere conto, per verificare il buon esito di un rapporto di consulenza. Alcuni di questi fattori appaiono chiaramente, hanno a che fare con il problema concreto, e sono comprensibili anche a chi identifichi il successo di un’attività con il suo immediato essere utile per-; altri fattori invece sono meno riconoscibili, hanno a che vedere con l’esperienza filosofica in se stessa ed indicano un tipo di benessere che non coincide subito con una utilità. Il successo di una sessione, può significare che il problema posto dal consultante alla fine è stato risolto e, tuttavia, non si riduce solo a questo. Al di qua della soluzione puntuale del problema determinato, infatti, vi è l’acquisizione, da parte del consultante, di uno sguardo di carattere filosofico sul problema medesimo. Al di qua della soluzione, c’è l’esperienza filosofica; quindi, al di là della soluzione al problema specifico, vi è l’effetto che uno sguardo rinnovato sull’esistenza ha sull’esistenza stessa.
Una sessione di consulenza filosofica “riuscita” conduce certamente ad una concezione più chiara di come un certo problema – professionale, sentimentale, o d’altro tipo – potrebbe essere affrontato; d’altra parte, una tale chiarificazione discende e non può essere scissa da un approfondimento e da un allargamento della prospettiva e da una riflessione critica sul proprio modo di vivere il problema medesimo, sul proprio atteggiamento verso di esso. Questo comporta l’adozione di diversi punti di vista rispetto al problema, quindi l’esercizio della propria capacità critica ed insieme una rinnovata consapevolezza circa il proprio modo di rapportarsi all’esistenza.
L’esame del problema determinato appare in realtà come il punto di partenza, ed anzi il pretesto, per considerare in una prospettiva filosofica l’approccio del consultante alla sua vita concreta, mettendo in luce in tal modo «la rete di significati filosofici che sta sotto di essa».
Per Lahav, chi torna a casa dopo una sessione di consulenza filosofica, non torna semplicemente “soddisfatto”, avendo la soluzione del problema in tasca, ma torna più saggio, vale a dire più critico e più responsabile nei confronti del proprio essere. Secondo le parole di M., una consultante interrogata da Lahav sul significato e sull’«influenza» delle loro conversazioni:

«Domanda: Varrebbe la pena secondo lei di continuare le conversazioni di consulenza?
Risposta: Sento che ci sono infiniti argomenti che possono essere discussi in questa cornice e in ogni caso le conversazioni sarebbero probabilmente d’aiuto nel continuare a portare a coscienza la mia concezione della vita, i miei vari tipi di comportamento. Personalmente, vedo un grande valore nel continuare queste conversazioni.
[…]
Domanda: Quanto sono state significative per lei le conversazioni, e qual è stata la loro influenza?
Risposta: Ho trovato le conversazioni di consulenza molto significative. Dopo ogni incontro ho sentito che mi stava uscendo più materiale su cui pensare. La cosa più significativa per me è stata che sono riuscita a osservare, o caratterizzare, la natura delle mie motivazioni e delle mie preferenze e a riesaminarla e a riconsiderarne la valutazione in modo critico (o a sceglierne di nuove e provare ad applicarle). Le conversazioni mi facevano venir voglia di provare a indagare ancora più profondamente vari approcci filosofici e di esaminarli in relazione a me stessa. Dopo ogni incontro tornavo a casa “carica” e pensosa, e continuavo la conversazione nella mia mente sulla via di casa e poi a casa».

M. è l’esempio luminoso di un successo nel rapporto di consulenza. M., infatti, non assimila il risultato delle sessioni alla soluzione dei suoi problemi personali, ma ad un’apertura dell’orizzonte esistenziale; M. non usa la pratica filosofica come mezzo volto ad un fine, ma la vive come un’occasione di crescita e di ricerca nell’ambito dei significati e delle idee.

«Quello che ha di unico questo processo è che evita di abboccare all’esca delle soluzioni e delle teorie preconfezionate offerte dai guru della New Age o dai libri di psicologia che spiegano come comportarsi».

Lahav distingue nettamente la sophìa da qualsiasi forma di abilità – “ la capacità di risolvere problemi specifici” – o di conoscenza – “l’acquisizione di informazioni”. Filosofare non è diventare abili a (fare qualcosa) o eruditi in (qualcosa), ma diventare «sensibili, attraverso l’indagine critica, alla ricca rete di significati reali e possibili del nostro mondo».

«Tutto questo pone la consulenza in netto contrasto con le psicoterapie orientate al problema. Diversamente da molte di queste terapie, essa non mira alla vita soddisfatta ma alla vita più profonda; non alla mancanza di dolore ma a una migliore autocomprensione; non alle soluzioni e all’autogratificazione, ma al processo che è la saggezza».

Incamminarsi sulla via della saggezza, significa maturare una più lucida consapevolezza intorno alla propria visione del mondo, ed iniziare così un processo per il suo arricchimento e per la sua espansione.
La consulenza filosofica poggia, secondo Lahav, proprio sul «principio dell’interpretazione della visione del mondo»: si tratta infatti di considerare la vita quotidiana, con i suoi dilemmi e con i suoi problemi, quale oggetto del filosofare. Il modo in cui il consultante vive un determinato problema o una certa situazione, rivela infatti non già meccanismi occulti che starebbero “dietro” i suoi pensieri ed i suoi comportamenti – l’inconscio è affare per la psicologia – bensì una particolare concezione del mondo, di sé, di ciò che ha o meno valore, di quello che è giusto o è sbagliato, e così via.
Una tale visione del mondo, pure se non è immediatamente sotto gli occhi del consultante, non va pensata come inconscia. Essa infatti non opera alle spalle, per così dire, dell’individuo, causandone giudizi, idee ed azioni; essa piuttosto si esprime proprio attraverso i giudizi ed i comportamenti stessi, in modo immediato, non-tetico, vale a dire senza che una riflessione vi si soffermi. Non avere l’abitudine di riflettere sul proprio modo di vivere, non implica che la propria visione del mondo sia abbandonata all’inconscio e che da lì operi segretamente determinando il nostro agire; una visione del mondo “irriflessa”, non è altro che uno sguardo sulle cose che non contempla se stesso, che non riflette su di sé e sul proprio modo-di-guardare.
Il consulente filosofico, allora, secondo Lahav, si offre come guida in un cammino di autocomprensione, che conduca l’individuo non a riconoscere le “cause inconsce” del suo agire, ma ad interpretare il contesto di significato entro il quale lo stesso agire si costituisce.

«È qui che i filosofi possono usare le loro peculiari abilità e la loro esperienza. I filosofi possono essere considerati esperti nell’analizzare le concezioni del mondo, sia quelle empiriche (per esempio, nella filosofia della scienza) sia quelle filosofiche. Una persona preparata in filosofia è abile a scoprire i presupposti impliciti e a proporne di alternativi, a scovare le incoerenze, a trarre le conseguenze, ad analizzare i concetti, e a portare alla luce regolarità e strutture nascoste».

Il consulente filosofico non è che un “esperto nell’interpretazione delle visioni del mondo”, il quale può aiutare il proprio interlocutore a far luce sulla rete di significati espressa nel suo modo di vivere e ad esaminare criticamente i nodi problematici che emergono nei suoi dilemmi. Così facendo, il consulente filosofico fornisce al consultante gli strumenti per uscire da una situazione di stasi, in cui egli cammina ricalcando di continuo i propri passi, senza mai prendere distanza da atteggiamenti, opinioni, ideali e desideri già fissati. Il consulente filosofico dà modo al suo ospite di liberarsi dalla sgradevole sensazione d’essere «imprigionato» in una routine senza scampo, per proiettarlo in una dimensione consapevole, critica e creativa nel rapporto con l’esistenza.
In questo modo, aggiunge Lahav, il consultante è altresì messo in condizione di sfuggire agli slogan facili e veloci, tipici della società della tecnica, intorno a concetti come “libertà”, “progresso”, “moralità”, ecc.; il consultante non s’incammina perciò a diventare semplicemente un individuo più consapevole e libero, ma anche un «cittadino globale» meno distratto e meno cieco rispetto al proprio tempo.

«Il mondo di oggi sembra offrirci grande libertà, ma le scelte che occupano la mente della maggior parte delle persone sono tipicamente non più grandi della scelta tra andare o no in quel ristorante, consumere questo o quel tipo di vitamina, o comprare questo o quel tipo di scarpe. Il più grande sogno dell’individuo medio non va probabilmente oltre l’acquisto di un’auto nuova fiammante o l’avanzamento di un livello di carriera nel lavoro. La vita è imprigionata nelle banalità degli spot pubblicitari e dei telefilm che impongono i loro banali modelli sul modo di vestire, i modi di dire, le aspirazioni, su quali lavori sono degni di considerazione e quali opinioni sono “in”».

È esplicito, a questo punto, il ruolo che Lahav assegna alla consulenza filosofica nel mondo contemporaneo:

«Io suggerisco che il ruolo della consulenza filosofica sia di prendere parte all’impresa di rispondere a questa situazione umana. La filosofia intesa come ricerca della saggezza è una ricerca che mira ad ampliare e approfondire la vita».

Gerd Achenbach: la via alla quiete interiore

Il libro della quiete interiore appare come un testo – dice bene la Soldani – di «consulenza filosofica applicata» , in cui Achenbach non semplicemente teorizza che la pratica della filosofia sappia venire incontro alle esigenze dell’uomo postmoderno, ma anche effettivamente mostra come questo possa avvenire. Il libro di Achenbach vuol essere non tanto una lettura filosofica, quanto un’esperienza della filosofia, in grado di colpire sì l’intelletto, ma anche l’esistenza stessa del lettore. In gioco è il senso profondo della consulenza filosofica, in quanto proposta e scommessa intorno alla capacità della filosofia di tornare a rendersi pratica e di sapersi rendere utile alla vita concreta dei singoli.
Naturalmente, come dev’essere in ogni sessione di consulenza filosofica, la riflessione prende le mosse da una richiesta e da un bisogno, espressi dal consultante. In questo caso, il consultante è ogni uomo che senta la necessità di ritrovare il proprio equilibrio, smarrito nella frenesia del mondo tecnologico; ogni uomo che si trovi in uno stato d’insoddisfazione in merito alla propria esistenza; ogni uomo, infine, che si senta irrequieto, e non riesca a fermarsi, a “darsi tempo”, dovendo sempre mantenersi in movimento per sentirsi vivo, terrorizzato al pensiero di stare senza far nulla.
Quest’uomo non versa in uno stato di malattia, piuttosto d’inquietudine. Manca qualcosa alla sua esistenza, di cui egli non sa dire; e così oscilla tra uno stato d’animo e l’altro, senza poter trovare riposo.

«In qualche modo si può dire che egli soffre, si sente oppresso, non sta bene però non capisce che cos’ha e come possa essere aiutato. In senso letterale, la sua miseria è che gli “manca” qualcosa, senza tuttavia sapere di preciso cosa. Oppure lo sa? Non sono forse le “relazioni” che non gli permettono di trovare pace? Non si chiede, forse, come si possa stare tranquilli in questi tempi agitati? Non si lamenta, forse, che “il mondo” è troppo rumoroso, troppo veloce, troppo abitato, troppo movimentato? E che non ci sia alcun luogo, dove lui, l’inquieto, possa trovare la sua pace, dove lo si possa lasciare in pace e dove finalmente stia in pace? Certo questo va bene, nel momento in cui si presuppone di ascoltare qualcuno che apprezzi la calma, il silenzio e a volte persino la noia…, poiché molti altri invece la pensano diversamente e vorrebbero che tutto fosse più rumoroso, più stridente, più veloce. Questi ultimi ne hanno abbastanza della calma nel mondo, che, se dipendesse da loro, eliminerebbero volentieri».

Achenbach incita a riflettere sul rapporto del mondo di oggi – e di conseguenza, anche del singolo individuo – con il tempo. Il tempo esercita una sorta di dittatura; il mondo appare in costante trasformazione, in un processo aperto, che non persegue alcun fine, né pare mai volgere ad una fine:«un processo infinito» e una « “crisi” permanente». Non vi è stasi, tutto è in perenne cambiamento.

«Il mondo moderno è essenzialmente inconclusione, assenza di fine e, perciò, è un puro e continuo svilupparsi che non tende ad alcun fine, che non ha un tèlos né alcun punto di arrivo, ma procede nell’indeterminazione».

Il tempo determina le condizioni dell’esistere, poi le consuma e ne fa subentrare di nuove. Il tempo decide la validità di una disposizione, poi – presto – la fa cadere. Non esiste nulla che non subisca la corruzione del tempo: anche quei valori, quelle verità, una volta creduti stabili, incrollabili, sono oggi riconosciuti come soggetti al divenire. Ciò che si era conquistato il titolo di “valore” o di “verità” anche grazie alla sua durata nei secoli, per aver dimostrato di essere “resistente al tempo”, ora mostra tutta la sua fragilità. La tradizione ed il passato, cedono alla novità e alla proiezione verso l’avvenire.
Il singolo si trova spiazzato, vive l’assenza di un suolo stabile – di un fondamento – con inquietudine. Spesso ottunde la sensazione che manchi “la terra sotto ai piedi”, cercando la distrazione, il divertimento, oppure gettandosi nel lavoro, o comunque impegnandosi in attività che allevino il disagio; tuttavia «Lucrezio ha ragione quando dice: così si cerca solo la fuga da se stessi, ma inutilmente. La fuga infatti è fallimentare. Sì certo, si fugge, ma il nostro io fugge insieme con noi: noi siamo i nostri accompagnatori più molesti da cui non possiamo proprio liberarci».
La fuga non ci sottrae al dominio del tempo, ed anzi rende più acuta l’impressione di non trovare mai noi stessi, qualunque cosa facciamo; ogni mossa per fuggire l’angoscia, infatti, dura poco e poi ci riscopre di nuovo soli con la nostra insoddisfazione. Il tempo vissuto nella velocità dei ritmi quotidiani o nell’evasione da ciò che il quotidiano stesso impone, è un tempo che getta l’io nella dispersione e che non gli concede di trovare la calma di cui abbisogna.
L’uomo contemporaneo di solito giudica male l’otium ed il riposo, e giudica male il silenzio; riposare è lo stesso che “sprecare il proprio tempo” e raccogliersi in silenzio appare come un “farsi il vuoto intorno”, è un’esperienza di assenza, di privazione. Non si pensa in genere alla necessità di ritrovare il proprio tempo, un tempo per se stessi, in cui l’ozio non è spreco né semplice far nulla, in cui il silenzio non è toglimento di-, ma pienezza meditativa.
A questo proposito, Achenbach rievoca un celebre passo nicciano:

«Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi dei rimorsi di coscienza. Si pensa con l’orologio alla mano, come si mangia a mezzogiorno appuntando l’occhio sul bollettino di Borsa – si vive come uno che continuamente “potrebbe farsi sfuggire” qualche cosa. “Meglio fare una qualsiasi cosa che nulla” – anche questo principio è una regola per dare il colpo di grazia a ogni educazione e ogni gusto superiore».

Achenbach ricorda inoltre come in passato, riferirsi al silenzio, avesse un significato profondissimo. Winckelmann definiva i capolavori dell’arte greca come espressione di una «nobile semplicità» e di una «grandezza silenziosa», riferendosi con questo alla loro calma imponente e alla loro sontuosa compostezza. Winckelmann dice un silenzio che è uno “stare presso di sé” e la tranquillità di questo stare; così fa intendere quello che oggi invece perlopiù si dimentica, «cioè che nella quiete dei gesti è espressa la forza e la sicurezza di un animo valoroso e capace di autocontrollo».
In che modo un consulente filosofico può rispondere all’uomo del suo tempo, piegato dall’irrequietezza ed incapace di risollevarsi?
Il filosofo non è un guru, uno capace di dare consiglio, né precetti agli uomini su come debbano comportarsi. Il filosofo infatti è colui che non sa nulla e sempre riconosce questa insanabile ignoranza. Un uomo di tal fatta, non ha ricette per la salvezza da dispensare. Soltanto, potrà mettere a disposizione la sua capacità critica, unita alla memoria delle riflessioni che hanno accompagnato anni di studi. Così il filosofo, come consulente, assisterà il suo ospite non per indicargli che cosa debba fare, ma innanzitutto per aiutarlo a comprendere meglio che cosa stia effettivamente facendo. Secondo l’espressione di Achenbach:

«Ritengo che la chiarificazione (Aufklärung) sia uno dei più importanti concetti della consulenza filosofica – non bisogna dire al consultante ciò che deve fare, ma spiegargli esattamente ciò che sta facendo, come si sta muovendo, qual è il suo comportamento».

E ancora:

«Non si tratta di raccontare della filosofia alla gente o di somministrarle delle teorie, quanto piuttosto di saper osservare in quanto filosofo. Non c’è infatti nessun malato che vada dal medico per ascoltare una lezione di medicina: va dal medico poiché lui solo sa vedere dov’è il problema».

Se Kant riteneva fondamentale la domanda “Che cosa debbo fare?”, Achenbach invece reputa indispensabile prendere le mosse dalla domanda “Che cosa sto facendo?”: solo con questo approccio è possibile all’ospite, nel dialogo col consulente, sciogliere le ambiguità, riflettere su ciò che non è stato ancora sufficientemente pensato, approfondire la propria posizione, ampliare la prospettiva…In una parola, solo con questo approccio, l’ospite giunge ad una chiarificazione di sé, del proprio modo di essere-nel-mondo, di “prendere la vita” e di far fronte ai problemi che questa di volta in volta pone.
Dinanzi al malessere dell’uomo postmoderno – inquieto, insoddisfatto, carico di un disagio che viene all’improvviso, un attimo dopo pare scomparire nella preoccupazione per gli affari quotidiani, e poi torna nuovamente e più forte quando uno è solo con se stesso; dinanzi ad un malessere tale, il consulente filosofico – anche lui uomo del proprio tempo – memore delle sue stesse difficoltà esistenziali e delle riflessioni e degli studi che ha compiuto, accompagna il suo ospite per il sentiero impervio dell’autoesame e della messa in questione di sé.
Come già Socrate affermava, solo una vita provata è degna di essere vissuta; una vita cioè che non si lascia scorrere, ma che viene “pesata”, interrogata, ed infine compresa intimamente e posseduta.
L’uomo inquieto, dunque, assieme al filosofo che con lui cammina, dovrà fare oggetto d’indagine la sua stessa inquietudine; non troverà una soluzione bell’e pronta al suo malessere, né imparerà una tecnica efficace a sopirlo; al contrario, spingerà profondo il dito nella piaga, finché il dolore non sia ben chiaro a se stesso.
Nella seconda parte del suo libro, Achenbach si cala nel ruolo stesso del consultante: è lui l’ospite inquieto e carico di dubbi, che si rivolge alla filosofia in cerca di chiarezza. In vero, non si può essere buoni consulenti – né buoni filosofi – se non si è stati consultanti delle proprie letture; ovvero, se non ci si è interrogati su di sé e sulla propria esistenza in loro compagnia e se il proprio sguardo sul mondo non è stato filtrato attraverso quelle pagine, riuscendone ogni volta più ricco. Tramite una scelta di passi significativi tratti dalle opere di Plutarco, degli stoici, di Montaigne, di Schopenhauer e di Nietzsche, Achenbach riflette dunque su se stesso, sulla propria condizione di essere umano e di uomo del ventunesimo secolo. Le parole dei filosofi non gli danno mai “risposte” definitive, ma sempre “spunti di riflessione”; e non regalano conforto né rassicurazione, poiché viceversa propongono pensieri sulla vita che demoliscono certezze ed aprono a sempre nuovi orizzonti, pensieri difficili da pensare, da “ruminare”, da far propri e da integrare alla propria esistenza. L’opera filosofica si riconosce dalla propria “forza rivelativa”, dove ad essere rivelata non è quasi mai una “verità”, e quasi sempre un nuovo modo di vedere le cose o di concepire se stessi. È una rivelazione che non “salva”, poiché non libera dall’angoscia: talvolta, anzi, l’inasprisce. È una rivelazione che non richiede la fede, né frena il dubbio, ma che invece invita a ragionare, a domandare, a mantenere vivo il senso critico. Ciò cui apre la filosofia non è la stasi della certezza e della rassicurazione, ma il movimento del pensiero e dell’auto-comprensione.
Achenbach propone ai lettori la sua esperienza della filosofia e dei filosofi – dei suoi “amici”, come li chiama. L’intento è quello di condividere questa esperienza col lettore e, al tempo stesso, di invitare ciascuno ad intraprendere il proprio percorso di letture e di riflessione.

«Così ho scritto questo libro, che mi ha dato gioia, poiché in esso i miei amici hanno preso la parola e posso sperare che presto diventeranno anche i vostri amici (se non lo sono ancora)».

Achenbach, naturalmente, non ha potuto che proporre al lettore i filosofi che più ha amato, quelli che meglio di altri hanno risposto, secondo lui, all’esigenza di equilibrio che l’uomo di oggi manifesta.
Tutto questo però non ha il sapore di una “ricetta per la vita buona e felice”. Non lo ha perché non dice “fai così e sarai salvo”, ma insinua “hai riflettuto su questo? E, ci hai mai pensato?”. Poi, l’ultima parola, non la può avere nessun altro che l’individuo; nessuno, tranne colui che ha direttamente a che fare con la propria esistenza.

« “Solo un’ultima domanda: perché alla fine non troviamo le parole di Nietzsche?”
“A lui lascio volentieri le parole iniziali e quelle intermedie, ma non le ultime.”
“ma allora a chi se non a lui?”
“beh…”»

Quei puntini di sospensione non sono che il ponte tra le pagine scritte di un libro, e quelle bianche della vita sempre in fieri che ciascuno di noi ha da vivere.

Bibliografia

  • R. Lahav, Comprendere la vita, Milano, Apogeo, 2004.
  • Z. Bauman, In search of politics, Polity Press, 1999, tr.it. La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000.
  • C. Lasch, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, New York, Norton, 1984, tr.it. L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Milano, Feltrinelli, 1985.
  • G.B. Achenbach, Das kleine Buch der inneren Ruhe, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau, 2°ediz.2001, tr.it. Il libro della quiete interiore, Milano, Apogeo, 2005.
  • F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), versione di Ferruccio Marini, Milano, Adelphi, 2003, p.232 e segg.
  • R. Soldani: «È da tenere presente che nell’espressione “Stille der Gebärde” che traduco come “quiete dei gesti”, il termine Stille contiene di nuovo in sé i due significati italiani di “quiete” e “silenzio”».
    Intervista di R. Soldani a G. Achenbach, “Phronesis”, n. II, p.130.

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